Un giorno, all’improvviso, sparì il long island.
Non si trattò di una sparizione naturale. Fu il Governo a decidere di vietarne la distribuzione, dall’oggi al domani. All’inizio nessuno se ne accorse. Sfruttando l’apatia legislativa che da sempre colpisce il Parlamento nel mese di agosto, il Governo riuscì a far votare un emendamento con il quale veniva introdotto un nuovo reato nel codice penale, che puniva con l’ergastolo chiunque venisse sorpreso a vendere o anche solo a consumare un long island. Il perché di questa decisione si trova illustrato in una succinta relazione, che venne letta alla Camera dall’On. Deluzzi, dell’allora partito di maggioranza, e nella quale si afferma che alcuno studi scientifici avrebbero dimostrato che il long island provoca un eccesso di buon umore, e in alcuni casi, anche fuggevoli momenti di felicità. Si tratta, si legge ancora nella relazione, di stati d’animo che suscitano nell’individuo il desiderio di superare la monotonia di giornate intere dedicate al lavoro e all’aumento della produttività nazionale, rendendolo in questo modo instabile e difficilmente controllabile. Non ci possiamo permettere il rischio di un’epidemia di felicità, chiosa l’On. Deluzzi nella sua relazione: interrompere immediatamente la diffusione di questa bevanda nella popolazione è l’unica soluzione possibile per salvaguardare l’Ordine.
Pochi giorni dopo l’entrata in vigore del nuovo reato, Gervaso andò a prendere un aperitivo con il suo amico Umberto e, come suo solito, ordinò un long island. Il cameriere, nel sentir pronunciare quelle parole, sbiancò in viso di colpo, tossì un paio di volte, e a mezza voce gli raccontò del provvedimento governativo, raccomandandogli di non chiedere più long island, né in quel bar, né in nessun altro locale pubblico. Corre voce, aggiunse il cameriere, che il Governo abbia formato un nucleo di forze speciali addette alla ricerca di consumatori abituali di long island, che girano con cani addestrati a riconoscere il profumo tipico di quella bevanda. Interdetto, Gervaso rimase in silenzio per qualche secondo. Poi si alzò e se ne andò.
Tornato a casa, cercò su internet qualche notizia che confermasse le parole del cameriere. Fu così che venne a sapere che il divieto governativo non riguardava soltanto i locali pubblici, ma qualsiasi altro luogo, comprese le abitazioni private. Nei supermercati era ancora possibile comprare separatamente vodka, gin, rum bianco, e triple sec, ma chiunque avesse tentato di acquistare questi prodotti insieme, contestualmente o anche in tempi diversi (era stata infatti prevista l’introduzione di registri speciali, nei quali veniva segnata data e quantità di acquisto di tutti gli ingredienti del long island) sarebbe stato immediatamente denunciato e trasferito nel carcere più vicino, in attesa di un sommario processo, che si sarebbe svolto con modalità del tutto peculiari: un’unica udienza della durata massima di 20 minuti, nessun difensore, solo pubblico ministero e giudice, un solo grado di giudizio e diretta televisiva su un canale governativo ad hoc. Oltre alla pena detentiva, poi, il colpevole sarebbe stato condannato anche al sorseggio quotidiano di una caipiroska alla fragola. O di un Bellini.
Per alcune settimane Gervaso tentò di non pensare al long island. Ma ogni volta che entrava in un locale, immancabile, il pensiero tornava a quel mix di superalcolici bianchi, con una spruzzata finale di cocacola, e una tristezza infinita gli calava addosso, come una mantella di flanella grigia in un’assolata giornata di fine luglio. A tratti aveva la sensazione di sentire nella bocca quel retrogusto amaro di the al limone che tanto amava, e improvvisamente la testa si svuotava, si faceva più leggera, libera di ogni pensiero e preoccupazione. Ma era questione di attimi, perché poi, di nuovo, quella ruvida mantella tornava ad avviluppargli il cervello, più pesante di prima. Avrebbe voluto cancellare ogni frammento di ricordo di quegli attimi di felicità, come in quel film in cui due innamorati, sentendo che la loro storia sta lentamente spegnendosi, decidono di sottoporsi a un esperimento scientifico per estirpare dalla mente tutto ciò che riguarda l’altro.
Poi, una fredda mattina di ottobre, Gervaso incontrò Beatrice. Stava attendendo l’ascensore per raggiungere il suo ufficio, quando la vide passare nel cortile del palazzo. Era bellissima. Indossava un golfino bianco e delle ballerine color salmone. Aveva lunghi capelli neri che le coprivano le spalle e meravigliosi occhi verdi. Si erano guardati per pochi istanti. Lei gli aveva sorriso e l’aveva salutato. Lui, da consumato sciupafemmine, le aveva detto “ciao”, si era voltato e aveva sbattuto fortissimo la testa contro le porte dell’ascensore, convinto che nel frattempo si fossero aperte. Lei aveva riso, lui aveva tirato giù un dioporco. Pochi giorni dopo erano usciti a bere un aperitivo. E lì, per la prima volta, Beatrice gli aveva parlato del Movimento.
Il Movimento era nato alcune settimane prima. Ne facevano parte una ventina di persone, tutte accomunate dall’amore per il long island e da un odio viscerale nei confronti del Governo. Nessuno di loro, prima di allora, aveva mai fatto politica, né, tanto meno, si era mai iscritto a un partito. Certo, tutti erano ben consapevoli del fatto che il Governo, ormai da tempo, stava attuando, con la complicità di tutti i partiti politici, un programma volto a reprimere ogni forma di emozione e di sentimento individuale, così da scongiurare il pericolo che il popolo si potesse risvegliare dal torpore nel quale era caduto, più o meno consapevolmente, alcuni anni prima, quando la crisi economica mondiale aveva suggerito l’adozione di misure che impedissero al cittadino di nutrire desideri e ambizioni economicamente dispersivi. Ma solo la sparizione improvvisa del long island li aveva definitivamente convinti della necessità di fare qualcosa.
Gervaso aveva cominciato a partecipare alle riunioni del Movimento, un po’ per la speranza di poter tornare a bere long island, un po’ per la presenza di Beatrice. Di cui, nel frattempo, si era perdutamente innamorato. Le riunioni consistevano per lo più in interminabili discussioni sul senso più profondo della strategia governativa, sul rapporto tra desideri dell’individuo e controllo delle masse, sull’importanza di preservare le emozioni del singolo, sul ruolo della felicità quale motore imprescindibile dell’agire dell’uomo. Insomma, una vera rottura di coglioni. Senza contare che di long island non se ne intravvedeva neanche una goccia. Troppo pericoloso tentare di procurarsene qualche gallone sul mercato nero, ripetevano spesso i compagni del Movimento (amavano chiamarsi così, tra loro: compagni).
Al termine dell’ennesima riunione del Movimento trascorsa a discutere e riflettere sul concetto filosofico di long island, Gervaso decise di esporre a Beatrice tutti i suoi dubbi sull’utilità di quegli incontri. Ne venne fuori una litigata furiosa, nel corso della quale Lei lo accusò di essere una persona vuota, priva di una visione complessiva delle cose, che agiva mossa soltanto da un atavico quanto animalesco bisogno di scolarsi dei long island. Gervaso replicò dicendole che atavico era un aggettivo pretenzioso, e che comunque non vedeva nulla di male nel suo desiderio di tornare a bere tutti i long island che voleva. Atavico, ma vaffanculo. Beatrice, allora, era scoppiata a piangere e gli aveva chiesto di non farsi mai più vedere. Nei giorni seguenti non aveva risposto alle sue telefonate e si era rifiutata di avere qualsiasi contatto con Lui.
Fu allora che Gervaso decise di agire.
Un venerdì pomeriggio entrò in cinque diversi supermercati: nel primo comprò un litro di vodka, nel secondo un litro di gin, nel terzo un litro di rum bianco, nel quarto un litro di triple sec, nel quinto alcune lattine di coca, del ghiaccio e una damigiana da cinque litri. Sapeva che avrebbero potuto arrestarlo solo l’indomani domattina, quando i nuclei speciali della Questura di Milano avrebbero provveduto al consueto controllo incrociato dei registri tenuti dai supermercati e avrebbero scoperto che un tale Gervaso Bergamini aveva acquistato gli ingredienti necessari per produrre un numero ingente di long island. Ma allora sarebbe stato troppo tardi.
Una volta a casa, svuotò nella damigiana tutte le bottiglie che aveva comprato, aggiunse il ghiaccio e, da ultimo, versò il giusto quantitativo di cocacola. In cucina si diffuse un intenso profumo di the. Rimase a guardare la sua creazione per alcuni istanti, mentre gli occhi si riempivano di lacrime, un misto di gioia e rabbia. Poi prese una cannuccia, la infilò nella damigiana, e cominciò a succhiare. Faceva lunghi sorsi, si fermava e si accendeva una sigaretta. Un lungo sorso, una sigaretta. Andò avanti così, senza fermarsi, per ore. All’inizio la testa cominciò a svuotarsi, proprio come nei suoi ricordi. Si riappropriò di sensazioni che non ricordava di aver mai provato, e che invece si erano solo addormentate da qualche parte nel suo cervello, in attesa che qualcuno le risvegliasse. A un certo punto capì di essere completamente ubriaco, ma non accennò a diminuire il ritmo delle sorsate. Un lungo sorso, una sigaretta. Un lungo sorso, una sigaretta. Il volto di Beatrice, lontano, lo guardava, sorridente. Un lungo sorso, una sigaretta. Sentiva che stava per superare quel confine. Ormai non era più soltanto ubriaco. La testa aveva cominciato a pulsargli violentemente. Aveva vomitato. Poi aveva ripreso. Un lungo sorso, una sigaretta. Un lungo sorso, una sigaretta. Aveva vomitato ancora. E ancora. Un lungo sorso, una sigaretta. Un lungo sorso, una sigaretta. Beatrice, ora, non lo guardava più. Si era voltata. Vedeva soltanto i suoi lunghi capelli neri e nient’altro. Un lungo sorso, una sigaretta. Un lungo sorso, una sigaretta.
Lo ritrovarono due giorni dopo, morto. Il corpo riverso in una pozza di vomito e cicche di sigaretta. La vicina, interrogata dalla polizia, riferì di aver sentito solo un lungo e interminabile rutto. Poi, più nulla.
E fu così che morì l’ultimo uomo ad aver bevuto un long island.