La cosa importante

Avevo un nonno che mi ha insegnato alcune cose sulla vita. Non si trattava del mio nonno biologico, ma ho sempre considerato la faccenda del tutto irrilevante. Mia nonna, americana, si era innamorata di lui poco dopo essere arrivata in Italia. Non capiva nulla della lingua, e credo che questo abbia influito parecchio sulla felicità di quei primi mesi di matrimonio con mio nonno, toscano. Tralascio la parte più scontata della storia, quella in cui i due iniziano a comprendere la lingua dell’altro, litigano, si separano, divorziano, si odiano, si amano di nuovo, lei torna negli Stati Uniti, si risposa (e con questa fanno tre: quando si dice imparare dagli errori del passato), torna single per motivi legati al Padreterno, lui rimane in Toscana, non si risposa, e infatti scopa parecchio. Ma non è questa la cosa importante.

Mio nonno aveva un gran senso dell’umorismo. L’ironia tipica dei toscani, micidiale, fulminante. Spietata. Un giorno mi disse “se vuoi essere felice con una donna devi sapere gestire la misura della catena: non troppo corta, perché devi lasciarla libera di muoversi dalla cucina alla camera da letto, non troppo lunga, perché se no finisce che viene a romperti i coglioni in salotto”. Quella volta era serio.

Ci sentivamo spesso, almeno una volta ogni due anni. Ogni tanto lo andavo a trovare in Toscana. Viveva in una villa nel Chianti. Colline, vigneti, cinghiali e Sting. (Ci tengo a questa cosa di Sting: qualche mese fa sono andato a cercare la tomba di famiglia e mio padre mi ha detto “è accanto alla villa di Sting”. Mi è sembrata una cosa parecchio figa). Stavo lì un paio di giorni, il tempo di leggere un libro, mangiare una decina di bistecche e fare lunghe conversazioni con mio nonno. “Allora, com’è?” “Bene” “Sempre fidanzato con quella dell’ultima volta?” “No” “Peccato, era carina” “Nonno, sei cieco, difficile che te la ricordi” “Lo capisco dalla voce” “Ah” “Lavoro?” “Bene” “Vado a dormire, ci si vede”. Era un tipo autoironico. Ma non è questa la cosa importante.

L’ultima volta che sono andato a trovarlo era triste. Si sentiva solo. I suoi amici erano morti. Mia nonna era morta. (Si telefonavano un paio di volte all’anno. Li legava qualcosa di strano. Credo i rimpianti). “Come va?” “Eh”. E siamo rimasti lì, in silenzio, seduti su due sedie di vimini, nello spiazzo di ghiaia davanti alla porta di casa. Lui si è acceso un sigaro, io una sigaretta.

Pochi giorni dopo è morto. Da solo.

E tra un paio d’anni, quando sovrappensiero proverò a chiamarlo, non risponderà nessuno. È questa la cosa importante.

Oh mia bela Madunina

Voi che non siete nati a Milano. Voi che l’abitate senza viverla. Voi che a questa città avete chiesto un lavoro in cambio del vostro disprezzo. Voi che non perdete occasione per lamentarvi di quanto siano grigie le sue strade e i suoi abitanti. Voi che rimpiangete una casa che non ha saputo trattenervi, perché non aveva nulla da offrirvi. Voi che la trattate come fosse la vostra puttana, sempre in attesa che vi succhi l’uccello, salvo poi lamentarvi che da queste parti, i pompini, costano molto più che a casa vostra. Voi che avete nostalgia del mare, della montagna, della collina, del verde, dell’azzurro, del cielo stellato, dell’aria pulita, del latte appena munto, del silenzio, delle villette di marzapane, delle strade che profumano di vaniglia, delle pecore che vi battono un cinque, delle arance grosse come un melone, dei meloni grossi come un’anguria, delle angurie grosse come una Hummer, dei vicini che vi salutano, del panettiere che vi sorride, dell’elettricista che era con voi alle elementari, del cibo buono, della trattoria da venti euro con il proprietario che vi offre il giro di amari, che vi saluta, che vi sorride, che era con voi all’asilo. Voi che siete nati in un paesello del cazzo in provincia di Reggio Calabria, che siete venuti qui a fare l’università e che sognate di andare a vivere a New York perché “oh, quella sì che è una vera metropoli”.

Ecco, voi, a un certo punto, ma perché non vi levate dai coglioni?

Breve riflessione sul dramma degli italiani a Sharm

“Pronto, Farnesina?”

“Sì, buongiorno, come posso aiutarla?”

“Vorrei qualche aggiornamento sulla situazione politica della Costa Azzurra”

“In che senso?”

“In generale. E’ tutto ok? Ci sono sommosse in atto? Sono previsti attentati terroristici nei prossimi mesi, tipo a luglio 2014?, preferibilmente l’ultima settimana, che prima non riesco a prenotare”

“Guardi, mi coglie in contropiede, non sono molto informata a riguardo, ma così su due piedi mi sentirei di escludere particolari turbolenze politiche nel sud della Francia”

“E a livello di prezzi degli ombrelloni come siamo messi?”

“Mi spiace, ma questi problemi non sono di nostra competenza”

“Quindi che faccio: prenoto? Tergiverso? Penso a mete alternative?”

“Fossi in lei prenoterei”

“Perfetto. Allora, segni: una doppia con letto matrimoniale per la settimana dal 22 luglio al”

“Scusi, ma per chi ci ha preso? Per un’agenzia viaggi?”

“Ma non siete voi che vi occupate delle vacanze degli italiani all’estero?”

“Sì, ma non nel senso che”

“E allora che fate, lasciate le cose a metà? Cioè, vi limitate a fornire al cittadino il bollettino politico della zona e poi basta, al resto dobbiamo pensare noi? Bravi, complimenti: un po’ come se il mio meccanico ordinasse su internet il carburatore e poi mi dicesse: to’, questo te lo monti tu. Non so se coglie l’antologia”

“…”

“Ci credo che poi le cose vanno come a Sharm: migliaia di turisti abbandonati al loro destino e nessuno che si degni di informarli che i pesci palla, in Thailandia, non si vedono da almeno due anni”

“Pesci palla?”

“Eh già. Quest’estate non ne ho visto manco mezzo. E a Sharm ci sono stato due settimane. Non una. Due. Ma di questo parleremo in Tribunale: il mio avvocato vi farà un culo così. Cinque mila euro tondi tondi. Me li scucite tutti, uno dopo l’altro”

“…”

“Dipendenti pubblici del cazzo. Ci credo che poi le cose vanno a rotoli in questo Paese. Scommetto che lei guadagna almeno nove mila euro al mese, e chissà cosa prende dal Partito”

“Credo che lei stia leggermente esage”

“Che poi, ora che ci penso, ‘sta Farnesina non dovevano mica abolirla insieme alle altre province?”

“…”

“C’aveva ragione mio nonno: vota Grillo, mi diceva. Vota Grillo!”

“Mi scusi, ma suo nonno quando glielo diceva di votare Grillo?”

“Cosa fa, vuole violare la mia privacy?”

“No, è che”

“Fottuti comunisti”

Dolore

– Il dolore ha una data di scadenza, per fortuna. L’importante è riuscire a neutralizzare i ricordi, che siano immagini, sapori o profumi. Devi farli evaporare piano piano, evitando tutto ciò che potrebbe farli rivivere nella tua testa. Ci vuole tempo, certo. Ma fintantoché riuscirai a non interrompere l’accumularsi delle ore tra la percezione e il ricordo sarai al sicuro: tutto ciò che non ravvivi, alla fine, in un modo o nell’altro si spegne. È un processo ineluttabile. L’unica, vera, forma di difesa dal dolore.

– Gervaso..

– Eh?

– Non puoi ridurti sempre così

– E’ più forte di me, non so che dirti

– Sì, ok, capisco, ma..

– Mi fa male

– Non lo metto in dubbio, però..

– Mi sembra di toccare con mano la sofferenza

– Ma infatti nessuno qua sta contestando quello che..

– Non lo vedi come sto?

– Gervaso, porcoddio, hai rotto il cazzo: sono solo finiti i carciofini sott’olio, domani te li ricompro

– Davvero?

– Sì, davvero

– Quelli un po’ bruciacchiati e con un botto di olio?

– Sì, quelli

– Sicuro?

– Gervaso

– Eh?

– Ma vaffanculo.

L’ultimo uomo che bevve un long island

Un giorno, all’improvviso, sparì il long island.

Non si trattò di una sparizione naturale. Fu il Governo a decidere di vietarne la distribuzione, dall’oggi al domani. All’inizio nessuno se ne accorse. Sfruttando l’apatia legislativa che da sempre colpisce il Parlamento nel mese di agosto, il Governo riuscì a far votare un emendamento con il quale veniva introdotto un nuovo reato nel codice penale, che puniva con l’ergastolo chiunque venisse sorpreso a vendere o anche solo a consumare un long island. Il perché di questa decisione si trova illustrato in una succinta relazione, che venne letta alla Camera dall’On. Deluzzi, dell’allora partito di maggioranza, e nella quale si afferma che alcuno studi scientifici avrebbero dimostrato che il long island provoca un eccesso di buon umore, e in alcuni casi, anche fuggevoli momenti di felicità. Si tratta, si legge ancora nella relazione, di stati d’animo che suscitano nell’individuo il desiderio di superare la monotonia di giornate intere dedicate al lavoro e all’aumento della produttività nazionale, rendendolo in questo modo instabile e difficilmente controllabile. Non ci possiamo permettere il rischio di un’epidemia di felicità, chiosa l’On. Deluzzi nella sua relazione: interrompere immediatamente la diffusione di questa bevanda nella popolazione è l’unica soluzione possibile per salvaguardare l’Ordine.

Pochi giorni dopo l’entrata in vigore del nuovo reato, Gervaso andò a prendere un aperitivo con il suo amico Umberto e, come suo solito, ordinò un long island. Il cameriere, nel sentir pronunciare quelle parole, sbiancò in viso di colpo, tossì un paio di volte, e a mezza voce gli raccontò del provvedimento governativo, raccomandandogli di non chiedere più long island, né in quel bar, né in nessun altro locale pubblico. Corre voce, aggiunse il cameriere, che il Governo abbia formato un nucleo di forze speciali addette alla ricerca di consumatori abituali di long island, che girano con cani addestrati a riconoscere il profumo tipico di quella bevanda. Interdetto, Gervaso rimase in silenzio per qualche secondo. Poi si alzò e se ne andò.

Tornato a casa, cercò su internet qualche notizia che confermasse le parole del cameriere. Fu così che venne a sapere che il divieto governativo non riguardava soltanto i locali pubblici, ma qualsiasi altro luogo, comprese le abitazioni private. Nei supermercati era ancora possibile comprare separatamente vodka, gin, rum bianco, e triple sec, ma chiunque avesse tentato di acquistare questi prodotti insieme, contestualmente o anche in tempi diversi (era stata infatti prevista l’introduzione di registri speciali, nei quali veniva segnata data e quantità di acquisto di tutti gli ingredienti del long island) sarebbe stato immediatamente denunciato e trasferito nel carcere più vicino, in attesa di un sommario processo, che si sarebbe svolto con modalità del tutto peculiari: un’unica udienza della durata massima di 20 minuti, nessun difensore, solo pubblico ministero e giudice, un solo grado di giudizio e diretta televisiva su un canale governativo ad hoc. Oltre alla pena detentiva, poi, il colpevole sarebbe stato condannato anche al sorseggio quotidiano di una caipiroska alla fragola. O di un Bellini.

Per alcune settimane Gervaso tentò di non pensare al long island. Ma ogni volta che entrava in un locale, immancabile, il pensiero tornava a quel mix di superalcolici bianchi, con una spruzzata finale di cocacola, e una tristezza infinita gli calava addosso, come una mantella di flanella grigia in un’assolata giornata di fine luglio. A tratti aveva la sensazione di sentire nella bocca quel retrogusto amaro di the al limone che tanto amava, e improvvisamente la testa si svuotava, si faceva più leggera, libera di ogni pensiero e preoccupazione. Ma era questione di attimi, perché poi, di nuovo, quella ruvida mantella tornava ad avviluppargli il cervello, più pesante di prima. Avrebbe voluto cancellare ogni frammento di ricordo di quegli attimi di felicità, come in quel film in cui due innamorati, sentendo che la loro storia sta lentamente spegnendosi, decidono di sottoporsi a un esperimento scientifico per estirpare dalla mente tutto ciò che riguarda l’altro.

Poi, una fredda mattina di ottobre, Gervaso incontrò Beatrice. Stava attendendo l’ascensore per raggiungere il suo ufficio, quando la vide passare nel cortile del palazzo. Era bellissima. Indossava un golfino bianco e delle ballerine color salmone. Aveva lunghi capelli neri che le coprivano le spalle e meravigliosi occhi verdi. Si erano guardati per pochi istanti. Lei gli aveva sorriso e l’aveva salutato. Lui, da consumato sciupafemmine, le aveva detto “ciao”, si era voltato e aveva sbattuto fortissimo la testa contro le porte dell’ascensore, convinto che nel frattempo si fossero aperte. Lei aveva riso, lui aveva tirato giù un dioporco. Pochi giorni dopo erano usciti a bere un aperitivo. E lì, per la prima volta, Beatrice gli aveva parlato del Movimento.

Il Movimento era nato alcune settimane prima. Ne facevano parte una ventina di persone, tutte accomunate dall’amore per il long island e da un odio viscerale nei confronti del Governo. Nessuno di loro, prima di allora, aveva mai fatto politica, né, tanto meno, si era mai iscritto a un partito. Certo, tutti erano ben consapevoli del fatto che il Governo, ormai da tempo, stava attuando, con la complicità di tutti i partiti politici, un programma volto a reprimere ogni forma di emozione e di sentimento individuale, così da scongiurare il pericolo che il popolo si potesse risvegliare dal torpore nel quale era caduto, più o meno consapevolmente, alcuni anni prima, quando la crisi economica mondiale aveva suggerito l’adozione di misure che impedissero al cittadino di nutrire desideri e ambizioni economicamente dispersivi. Ma solo la sparizione improvvisa del long island li aveva definitivamente convinti della necessità di fare qualcosa.

Gervaso aveva cominciato a partecipare alle riunioni del Movimento, un po’ per la speranza di poter tornare a bere long island, un po’ per la presenza di Beatrice. Di cui, nel frattempo, si era perdutamente innamorato. Le riunioni consistevano per lo più in interminabili discussioni sul senso più profondo della strategia governativa, sul rapporto tra desideri dell’individuo e controllo delle masse, sull’importanza di preservare le emozioni del singolo, sul ruolo della felicità quale motore imprescindibile dell’agire dell’uomo. Insomma, una vera rottura di coglioni. Senza contare che di long island non se ne intravvedeva neanche una goccia. Troppo pericoloso tentare di procurarsene qualche gallone sul mercato nero, ripetevano spesso i compagni del Movimento (amavano chiamarsi così, tra loro: compagni).   

Al termine dell’ennesima riunione del Movimento trascorsa a discutere e riflettere sul concetto filosofico di long island, Gervaso decise di esporre a Beatrice tutti i suoi dubbi sull’utilità di quegli incontri. Ne venne fuori una litigata furiosa, nel corso della quale Lei lo accusò di essere una persona vuota, priva di una visione complessiva delle cose, che agiva mossa soltanto da un atavico quanto animalesco bisogno di scolarsi dei long island. Gervaso replicò dicendole che atavico era un aggettivo pretenzioso, e che comunque non vedeva nulla di male nel suo desiderio di tornare a bere tutti i long island che voleva. Atavico, ma vaffanculo. Beatrice, allora, era scoppiata a piangere e gli aveva chiesto di non farsi mai più vedere. Nei giorni seguenti non aveva risposto alle sue telefonate e si era rifiutata di avere qualsiasi contatto con Lui.

Fu allora che Gervaso decise di agire.

Un venerdì pomeriggio entrò in cinque diversi supermercati: nel primo comprò un litro di vodka, nel secondo un litro di gin, nel terzo un litro di rum bianco, nel quarto un litro di triple sec, nel quinto alcune lattine di coca, del ghiaccio e una damigiana da cinque litri. Sapeva che avrebbero potuto arrestarlo solo l’indomani domattina, quando i nuclei speciali della Questura di Milano avrebbero provveduto al consueto controllo incrociato dei registri tenuti dai supermercati e avrebbero scoperto che un tale Gervaso Bergamini aveva acquistato gli ingredienti necessari per produrre un numero ingente di long island. Ma allora sarebbe stato troppo tardi.

Una volta a casa, svuotò nella damigiana tutte le bottiglie che aveva comprato, aggiunse il ghiaccio e, da ultimo, versò il giusto quantitativo di cocacola. In cucina si diffuse un intenso profumo di the. Rimase a guardare la sua creazione per alcuni istanti, mentre gli occhi si riempivano di lacrime, un misto di gioia e rabbia. Poi prese una cannuccia, la infilò nella damigiana, e cominciò a succhiare. Faceva lunghi sorsi, si fermava e si accendeva una sigaretta. Un lungo sorso, una sigaretta. Andò avanti così, senza fermarsi, per ore. All’inizio la testa cominciò a svuotarsi, proprio come nei suoi ricordi. Si riappropriò di sensazioni che non ricordava di aver mai provato, e che invece si erano solo addormentate da qualche parte nel suo cervello, in attesa che qualcuno le risvegliasse. A un certo punto capì di essere completamente ubriaco, ma non accennò a diminuire il ritmo delle sorsate. Un lungo sorso, una sigaretta. Un lungo sorso, una sigaretta. Il volto di Beatrice, lontano, lo guardava, sorridente. Un lungo sorso, una sigaretta. Sentiva che stava per superare quel confine. Ormai non era più soltanto ubriaco. La testa aveva cominciato a pulsargli violentemente. Aveva vomitato. Poi aveva ripreso. Un lungo sorso, una sigaretta. Un lungo sorso, una sigaretta. Aveva vomitato ancora. E ancora. Un lungo sorso, una sigaretta. Un lungo sorso, una sigaretta. Beatrice, ora, non lo guardava più. Si era voltata. Vedeva soltanto i suoi lunghi capelli neri e nient’altro. Un lungo sorso, una sigaretta. Un lungo sorso, una sigaretta.

Lo ritrovarono due giorni dopo, morto. Il corpo riverso in una pozza di vomito e cicche di sigaretta. La vicina, interrogata dalla polizia, riferì di aver sentito solo un lungo e interminabile rutto. Poi, più nulla.

E fu così che morì l’ultimo uomo ad aver bevuto un long island. 

Fumiamo?

“Perché vieni con me?”

“Non so”

“Ormai sono sei mesi che ogni giovedì mi passi a prendere alla stessa ora”

“Sono un abitudinario”

“Non ti stanca questa routine?”

“Sono troppo pigro per affrontare i cambiamenti”

“E perché sempre me?”

“Perché mi affeziono velocemente, a tutto”

“Non sei carino a dirmi così”

“Se vengo con te è proprio perché non voglio preoccuparmi di quello che dico”

“Il fatto che io sia una puttana ti aiuta?”

“Mi rende più libero”

“Più libero da cosa?”

“Dalle aspettative degli altri”

“E allora perché ti sei sposato? Perché hai fatto dei figli?”

“Avevo paura di rimanere solo”

“E ha funzionato?”

“Tu che dici?”

“Però almeno tu, quando torni a casa, hai qualcuno che ti aspetta”

“E’ proprio questo che mi fa impazzire”

“Che qualcuno ti aspetti?”

“Che qualcuno si aspetti che io torni”

“Non può essere solo questo”

“No, hai ragione”

“Cosa pensi quando sei a casa?”

“Che mia moglie parla troppo e che mio figlio è un coglione”

“Tuo figlio quanti ha?”

“Due”

“…”

“T’assicuro che è un coglione”

“Prima o poi te ne andrai da lì”

“Non credo. Te l’ho detto, sono troppo pigro”

“Non riesco a compatirti”

“Non è quello che ti chiedo”

“Lo so”

“Cosa sai?”

“So perché vieni qui, tutti i giovedì sera, alla stessa ora”

“Ah sì? E perché?”

“Perché cinquanta euro sono un buon prezzo per un’assoluzione”

“E anche per un buon pompino”

“Quello potresti chiederlo anche a tua moglie”

“Mi costerebbe molto di più”

“Fumiamo?”

“Ho smesso”

“E perché?”

“Me l’ha chiesto mia moglie”

Adozioni a distanza

Sta tentando di ordinare il quinto long island della serata, quando una mano sconosciuta gli batte due volte sulla spalla.

“Ehi, potresti chiedere anche una caipiroska alla fragola?”

“Come?”

“Una caipiroska alla fragola!”

“Sì, avevo capito. Solo, volevo chiederti come fai a bere quella merda”

“Come?”

“Nulla”

Due ore dopo siedono su una panchina, la bocca impastata di fumo, salamella e cipolla. Poco più avanti, le prime luci dell’alba s’allungano su una spianata di cemento e calcinacci, ove svettano gli scheletri di una manciata di palazzi ancora senza finestre, circondati da qualche decina di gru e file di tubi accatastati uno sopra l’altro. A dividere il cantiere dalla città, solo un cancello arrugginito e una lunga rete metallica, a metà della quale qualcuno ha appoggiato un vecchio materasso e una mensola di legno. Alcuni metri più in là, una puttana dorme appoggiata a un palo, in attesa che l’ultimo cliente della nottata venga a svegliarla con un colpo di clacson.

Si accende una sigaretta e si accorge che lei lo sta fissando.

“Un paio di anni fa ho adottato a distanza un bambino africano”

“Perché?”

“Per sentirmi meno sola”

“E ha funzionato?”

“Non tanto”

“Come mai?”

“È morto due mesi dopo”

“Ah. E poi?”

“Poi ho comprato un gatto”

“E?”

“Nulla. Continuavo a sentirmi sola”

“Ma il gatto è vivo?”

“Sì sì”

“Meglio”

“Poi mi sono fidanzata con un ragazzo molto tenero”

“Ma hai continuato a sentirti sola, giusto?”

“Esatto”

“E l’hai lasciato?”

“Sì, pochi giorni fa”

“E poi?”

“Poi ti ho chiesto di ordinarmi una caipiroska”

“E ha funzionato?”

“Credo di sì”

“Bene”

“Ora devo andare”

“Ti rivedo?”

“No, non credo”

“Perché?”

“Perché mi basta così”

“Immaginavo”

“Ciao”

“Ciao”

Si alza e se ne va. Lui rimane qualche minuto in silenzio, con la mente vuota e la sigaretta in bocca. Poi, appena prima di alzarsi, prende in mano il cellulare e scrive un messaggio:

“Amore, e se adottassimo un bimbo africano? Però, sano”

Dai, bene.

Talvolta càpitano giornate un po’ particolari. Tipo che la tua squadra del cuore perde quattro a zero ed esce dalla Champions. O il tuo capo ti dice che quel documento proprio non va. O ti accorgi che sono finiti i Pan di Stelle. O trovi nella casella di posta l’invito al matrimonio di una tua ex. Che si sposa con quello per cui ti ha lasciato. Cioè quello che si scopava mentre vivevate insieme. O perdi a Ruzzle contro Bimbominkia94. Cinque volte di seguito. “Peccato, bella partita, LOL!”. O il tuo motorino ti abbandona mentre sei fermo a un semaforo. E piove. E tu sei ubriaco. E sono le cinque del mattino. O vai dal parrucchiere e quando esci ti rendi conto che sei uguale al figlio del cantante dei Ricchi e Poveri. (Ma almeno sei vivo). O esci a cena e sbagli a ordinare tutte le portate. O la tintoria ti stira i jeans con la riga in mezzo. O compri una camicia che ti sta da Dio, torni a casa, la indossi, e t’accorgi che dietro è stampato un teschio rosso sangue. O la tua commercialista ti scrive ricordandoti che tra dieci giorni devi pagare tremila euro di Iva.  O scegli un locale che non serve long island. Oppure lo serve ma fa cagare. O lavori per mezza giornata su un documento che hai aperto dalla posta elettronica. Senza salvarlo. O, distratto, t’imbatti in un cieco che per farsi strada ti colpisce ripetutamente gli stinchi con il suo bastone. O, mentre stai per ordinare l’ultima porzione di tortellini al ragù, una vecchia ti passa davanti e li ordina lei. O conosci un calabrese. O conosci un vecchio calabrese. O conosci un vecchio calabrese cieco. O cerchi parcheggio in una via che ha quattro posti liberi. Tutti per handicappati. O scopri che hai finito le sigarette. Ed è mezzanotte. E hai lasciato il tesserino sanitario a casa. E porcodio.

Oppure non accade nulla. Ed è molto peggio. 

La posta del cuore

Ciao Massimo Decimo Meridio,

sono Filippo, ho sedici anni e ti scrivo da Milano. Un paio di settimane fa ho conosciuto una ragazza molto carina: bionda, occhi verdi, un sorriso dolcissimo. Ci siamo incontrati alla festa di compleanno di un amico in comune. L’ho notata subito, appena entrata, ma visto che sono timido ho passato buona parte della serata a chiedermi come avrei potuto rivolgerle la parola senza sembrare un coglione. Poi, tutt’a un tratto, è venuta lei da me, a chiedermi se avevo una sigaretta da offrirle. Fortunatamente avevo ripreso a fumare giusto il giorno prima, quindi ho tirato fuori le mie Marlboro rosse e siamo usciti sul terrazzo. Per fartela breve: passiamo le due ore successive a parlare, ci raccontiamo che cosa facciamo nella vita, quali sono le nostre materie preferite, le città che abbiamo visitato con le nostre famiglie, i libri che porteremmo su un’isola deserta; ci raccontiamo pure le nostre storie passate, lei mi dice che è uscita da poco da una relazione sentimentale complicata, durata più di due mesi, e che arrivata a quindici anni ha capito di aver perso anche troppo tempo dietro “le paturnie di quello che avrebbe dovuto essere un uomo e che invece si è rivelato essere solo un bambinone che non sa che fare della propria vita”; che finalmente ha trovato un suo equilibrio, che studia tanto ma che questo non le pesa perché le piace quello che fa, che per la prima volta si sente davvero realizzata: non più bambina ma donna fino in fondo. Alla fine della serata, lei è andata via con una sua amica, ma poco prima di uscire ci siamo scambiati il contatto su facebook. Ero molto contento. Il giorno dopo le ho scritto. Avevo pensato di lasciar passare almeno un paio di giorni prima di farmi sentire, poi mi son detto: “queste cagate lasciamole agli undicenni; hai conosciuto una ragazza che ti piace – ed era un sacco che non ti capitava –, hai passato quasi due ore a parlare con lei, avete riso e scherzato, che bisogno c’hai di fare il prezioso?”. Naturalmente non le ho chiesto subito di vederci: le ho scritto un messaggio simpatico, prendendola in giro per una cosa che mi aveva detto la sera prima, mi sembra che c’entrasse una versione di latino, e ho messo due puntini di sospensione alla fine. Non tre: due. Odio chi mette troppi puntini di sospensione. Lei mi ha risposto quasi subito: “^-^”. Da lì abbiamo iniziato a scriverci un paio di messaggi al giorno, per quasi una settimana. Sempre cazzate, eh, però un sacco divertenti. Fatto sta che un giovedì pomeriggio ho preso coraggio e le ho proposto di uscire con una chattina su Fb: “Stasera andiamo alle Colonne?”. Mi ha risposto un paio d’ore dopo: “Scusa ma stasera ho un impegno. Sentiamoci più in là”. Ecco, caro MDM, ti confesso che questa risposta mi ha davvero spiazzato. E ora non so bene che fare. Spero che saprai darmi uno dei tuoi sempre saggi consigli.

Ciao,

Filippo

 

Caro Filippo,

innanzitutto grazie per la tua lettera, mi fa sempre piacere scoprire che la platea dei miei lettori comprende anche giovani fanciulli, che muovono i primi passi nell’orizzonte plumbeo dell’agone amoroso. Mi chiedi d’indicarti quale strada imboccare, dopo che la donna che brami pare aver socchiuso le porte del suo cuore, con quella risposta tanto ruvida quanto inaspettata. Ebbene, ecco allora il mio consiglio, che ti sussurro sommessamente e che ti prego di prendere per quello che è: una semplice manciata di parole gettate lì, davanti al tuo giovane volto, da un uomo di mezz’età, che ancora oggi si muove spaesato tra le cose della vita. Mandala a cagare. 

Fameeehhh!

Un disabile grave rifiuta il cibo.

***

Cinquanta persone con disabilità gravi e gravissime, di cui circa la metà attaccate a un tubo per respirare e a un altro per nutrirsi, hanno iniziato il 21 ottobre lo sciopero della fame per protestare contro l’assenza di un “piano organico per la non autosufficienza”.

http://www.corriere.it/salute/disabilita/12_ottobre_22/disabili-sciopero-fame_0d0fad70-1c25-11e2-b6da-b1ba2a76be41.shtml

***

In sciopero della fame cinquanta disabili gravi. Che prima di iniziare erano medi.

Il gesto estremo è stato promosso dal “Comitato 16 novembre”. L’obiettivo è arrivarci.

“Il ministero aveva promesso un piano d’intervento, e sono già passati sei mesi”. È quello il piano.

I disabili si sono riuniti in un sit-in. Per mancanza di alternative.

“Condanniamo l’immobilismo del governo” ha dichiarato un familiare con scarso senso dell’umorismo.

“Per i casi più gravi serve un piano blindato”. E una ferrovia.

L’incitamento più forte arriva dagli stessi malati. “Togli quel cazzo di piede dal sondino!”

“Io scrivo con gli occhi grazie un computer dotato di puntatore oculare, mi nutro tramite un tubo inserito nello stomaco e respiro grazie a un altro tubo inserito in trachea, alimentato da ventilatore” ha dichiarato il segretario del Comitato bullandosi con uno stato vegetativo permanente.

“Ok, allora è deciso: da oggi sciopero della fame”

“Stacco il tubo?”

“Vai”

“Ghhh ghhh coff coff coff ghhh!”

“Occristo, ho sbagliato tubo”

“Riattaccalo subito, non lo vedi che soffoca?”

“Ok, riattaccato”

“Sei proprio un coglione”

“Scusami, è che con tutti questi tubi è un gran casino”

“Com’è che il tubo è diventato marrone? Che cazzo hai fatto? Non lo vedi che quella è merda?”

“Occristo, hai ragione”

“Gli hai infilato in bocca il tubo per cagare”

“Porca troia, lo stacco subito”

“Diocane, tieni fermo quel cazzo di tubo, mi stai inondando di merda”

“Mi spiace, non è colpa mia se ha deciso di cagare proprio ora”

“Cazzo, c’è merda dappertutto”

“Forse è meglio se andiamo a farci una doccia”

“E lui?”

“Lui viene con noi, non lo possiamo mica lasciare in mezzo alla piazza conciato in questo modo, con tutti quei tubi per aria sembra una centralina dell’Enel colpita da uno tsunami di merda”

“E lo sciopero?”

“Lo sciopero aspetterà: venti o ventuno ottobre, non cambia un cazzo”

“Aspetta: sta scrivendo qualcosa sul monitor, ma non leggo bene, è coperto dagli schizzi”

“Tieni, pulisci con questo fazzoletto”

“Ecco, ora si legge”

“ANDATVENE AFFANCULO VOI E IL VSTRO SCIOPERO DL CAZZO”

 

(Feat. Fed)